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Sulla prima guerra mondiale

L’ostilità delle donne alla guerra

L’ostilità delle donne alla guerra apparteneva in un certo senso all’ordine naturale delle cose, poteva essere considerata come un fatto istintivo della sposa, della madre, costretta improvvisamente a separarsi dal marito, dal figlio. Ma altri elementi, oltre all’istinto, influirono durante il 1917 sul comportamento delle masse femminili. Quanto avvenne dopo l’intervento accelerò difatti enormemente il processo di emancipazione delle donne, conferì ad esse maggiori responsabilità familiari e sociali, segnò per il mondo femminile un momento di transizione tra due epoche. Potrebbero essere trovate non poche analogie con quanto dicemmo poco fa riguardo al mondo contadino: anche per il mondo femminile la guerra significò creazione di un ambiente spirituale e sociale profondamente nuovo, crisi di comportamenti e di ideali a volte rimasti immutati da secoli. Fra il 1915 ed il 1918 centinaia di migliaia di donne presero il posto di tanti uomini chiamati alle armi. Il 1° novembre 1918 le donne occupate nelle sole industrie di guerra furono 196.000, vale a dire il 22 % sul totale degli addetti(156). Un’inchiesta compiuta fra 1.757 ditte industriali di Milano dimostrò che le donne in esse occupate erano passate dalle 27.106 unità del 1914 alle 42.937 degli inizi del 1918, con un aumento dei 58 %(157). Nelle campagne, come dicemmo, la maggior parte delle famiglie dei richiamati poterono eguagliare i redditi prebellici solo ricorrendo al maggior lavoro dei membri rimasti e, in particolar modo, delle donne.
In un articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 30 aprile 1917 — e dunque alla vigilia dei moti milanesi — si lesse che oramai una vera fiumana di donne era penetrata nei luoghi di lavoro degli uomini. Campi, fabbriche, uffici, ospedali, stazioni, tranvie, banche, botteghe pullulavano ormai di impiegate, operaie, commesse: Oggi lavorano pel bene di tutti tante donne quante mai ne avevamo vedute, anzi pensate, in lavori da uomini. E il problema della cosiddetta emancipazione s’è per la guerra capovolto: prima le donne chiedevano di essere emancipate in diritto per avere il modo, dicevano, di lavorare con la libertà e magari coi salari degli uomini; oggi le donne lavorano, spesso con alti salari, e a molti che s’opponevano alla loro emancipazione, questa sembra ormai logica e magari utile.
La guerra — proseguiva il giornale — aveva dato a decine di migliaia di donne lavoro continuo, salari insperati e spesso un’agiatezza che inebriava e faceva, ad alcune, dimenticare le virtù dei risparmio; presto sarebbero stati concessi anche nuovi diritti, per bilanciare i nuovi doveri e il mondo femminile, insomma, avrebbe finito per trarre i maggiori vantaggi dalla guerra. «Eppure - constatava il «Corriere» - tante donne sono contro la guerra. Non s’ha da dire: perché? Io credo che s’abbia da dire prima di tutto perché è la verità, e non solo in Italia; e poi perché la colpa, soprattutto in Italia, è di noi uomini». L’articolista intendeva dire che il mondo politico italiano era colpevole di non aver saputo tramutare in passione politica le ragioni della guerra, e si trattava, invero, di una significativa ammissione (158).
Era troppo semplicistico, tuttavia, vedere nella protesta femminile soltanto una conseguenza del disagio politico generale, e credere che la più intensa partecipazione al lavoro dei campi, delle fabbriche e degli uffici assicurasse alle donne soltanto vantaggi. Il lavoro delle donne, infatti, dipendeva nella maggioranza dei casi non da una libera scelta, ma da una necessità, dato che i sussidi governativi alle famiglie dei richiamati si dimostravano sempre più sproporzionati all’aumentato costo della vita. D’altra parte le retribuzioni percepite conducevano di rado alla «agiatezza inebriante» di cui parlava il «Corriere», ed erano quasi sempre inferiori a quelle degli uomini (nell’aprile dei ‘17 ebbe luogo a Reggio Emilia un convegno femminile socialista per affermare il principio «a parità di lavoro, parità di salario»)(159). Il passaggio delle donne ad occupazioni fino ad allora riservate agli uomini comportava inoltre numerose ed intuibili difficoltà di adattamento: basti pensare alle condizioni nelle quali si lavorava allora in molti stabilimenti industriali. E si consideri che il tempo speso nel lavoro esterno era sottratto alla famiglia, in un periodo in cui l’amministrazione della casa risultava più complessa per le difficoltà degli approvvigionamenti, e l’educazione dei figli più difficile per l’assenza dei mariti (160).
Le donne, infine, avevano il coraggio di esporre se stesse nelle pubbliche proteste contro la guerra molto più degli uomini. Questi temevano di essere presi e mandati al fronte(161). Le donne, invece, non avevano di queste preoccupazioni, si sentivano più libere, più aggressive. Bastavano pochi cenni di intesa perché scendessero nelle vie. Lo diceva anche Turati: erano «furie».

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156 Cfr. Incbiesta Caporetto, voi. II, p. 408.
157 Cfr. i dati raccolti dall’Ufficio municipale deI lavoro di Milano riportati in R. BACHI, L’italia economica nel 1918, Città di Castello 1919, pp. 183-84.
158 « Corriere della Sera », 30 aprile 1917, pp. 1-2, (Le donne e la guerra, a firma «Salio»).
159 Cfr. R. DE FELICE, Ordine pubblico cit., p. 487. Parteciparono sI convegno vari deputati socialisti, tra cui Lazzari e Argentina Altobelli.
160 Sul massiccio ingresso delle donne nel mondo della produzione cfr. P. SPRIANO, Torino operaia nella grande guerra cit., pp. 202-03.
161 Su questo argomento e sulla situazione esistente nel 1917 cfr.anche G.GERMANETTO, Memorie di un barbiere, Mosca 1943.

da P.Melograni, Storia politica della grande guerra, ed Universale Laterza, Bari 1977, vol2°